Il ricordo dell’Heysel al tempo del coronavirus


— La tragedia dell’Eysel —

C’è uno strano legame tra i sentimenti che stiamo vivendo in questi giorni di contagi da virus e la tragedia dell’Heysel. Una coincidenza che ci porta a pensare come sia così esile il passaggio dalla vita alla morte, che rievocare le tragedie avvenute ha lo stesso profondo dolore di ferite che non si rimargineranno mai. E’ come se provare un intimo dolore per chi è morto e poi sparito nel nulla, fosse uguale al ricordo di vittime innocenti che hanno perso la vita per la passione per il calcio. Già, il motivo conduttore è sempre il dolore, è il lutto che si manifesta in un umano sentire che unisce tutti, che va oltre le diversità o, più semplicemente, ci rende distanti attraverso le più disparate fedi calcistiche che ci portano a essere gli uni contro gli altri. Il 29 maggio 1985 è una data da ricordare, un giorno che non appartiene soltanto alla Juventus e ai suoi tifosi, ma coinvolge tutti allo stesso modo. E’ la memoria di una notte maledetta in cui prima della finale di Champions League, (allora Coppa dei Campioni) tra Liverpool e Juventus, in quello stadio di Bruxelles tristemente ricordato come Heysel, ci furono 39 morti. Quasi tutti tifosi della Juventus, i quali furono schiacciati dall’invasione dei tifosi del Liverpool nel settore Z. Una tragedia di 35 anni fa che fa gridare a una serie di errori in fase organizzativa da parte della UEFA che scelse per una finale di Champions uno stadio non all’altezza della situazione, per capienza e strutture vetuste che non davano garanzie. Gli hooligan, infatti, erano separati dai tifosi della Juve soltanto da una fragile rete di recinzione che non poteva sopportare il peso di una fiumana di persone che, inevitabilmente, si sono ammassate una sull’altra. Una morte orribile in una notte di terrore, che oggi tutti noi ricordiamo per averle viste attraverso le telecamere della RAI. Strazianti immagini che hanno fatto il giro del mondo, che raccontano ancora oggi il dramma di una violenza sciocca e inaudita, provocata soprattutto dai tifosi inglesi che sono arrivati allo stadio già mezzi ubriachi. Quel giorno morirono 35 italiani, 4 belgi, 2 francesi, 1 irlandese. Tra questi c’era anche Andrea Casula di Cagliari, aveva 10 anni ed era andato con papà ad assistere alla partita. Erano le 19,20, e il tramonto di una calda giornata quasi estiva dava ancora luce a un cielo limpido e azzurro, che nulla faceva presagire ciò che poi in pochi istanti si sarebbe consumato. Quell’onda rossa delle maglie che contrassegnavano i colori dei tifosi del Liverpool, presto ha inondato come fosse un’onda anomala il settore dei tifosi bianconeri. Il resto è storia, è tragedia immane che non bisognerà mai dimenticare. Come oggi, 35 anni dopo, in cui stiamo rivivendo nell’intimo ciò che significa morire per una partita di calcio. Passione per un gioco che è metafora di vita e, come tale, anche di probabili tragedie. Così come Superga, in cui morirono i mitici calciatori del Grande Torino, e tante altre sciagure volute dal destino e dalla leggerezza dell’uomo. Ma la cosa che resta vivida in noi è la memoria, il ricordo di atleti e persone comuni che hanno perso la vita per il pallone, questa incredibile sfera di cuoio che fa girare il mondo. In tutto questo, deve restare unanime il rispetto verso le persone che nel lutto non potranno essere ricordate per il colore della maglia o per la diversa passione sportiva, ma per ciò che lega il sentimento di umanità tra gli uomini.

Salvino Cavallaro

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