ATTACCO AL POTERE – IL 1992 E MANI PULITE – LA SOVRANITA’ ITALIANA COLPITA A MORTE DA QUEL COLPO DI STATO. INTERFERENZE DELLA CIA?


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 — Febbraio 13, 2016 · di universitarianweb · in Italiano, Politica. · codice 1385709868-pietro – Ci scrive un ex ministro del primo governo Berlusconi del 1994 che vuole mantenere l’anonimato. Gli avvenimenti di quel lontano 1992 e l’attacco cruento di “Mani pulite” che colpì in una sola direzione, risparmiando gli ex comunisti. Fatti, antefatti e  ipotesi. Oggi la “nemesi” con i giudici sott’accusa di corruzione e di altri fatti gravissimi.
L’operazione Mike Papa, rinominata poi Mani Pulite, in meno di tre anni ha cambiato la storia d’Italia, svelando un sistema di corruzione radicata e infliggendo il colpo di grazia alla prima Repubblica. Dai sette milioni di lire della mazzetta del caso Chiesa ai 150 miliardi della maxitangente Enimont, in un anno e mezzo il pool ha raccolto le confessioni su fiumi di soldi girati dalle imprese alla politica, per ottenere in cambio appalti e leggi su misura.
IL POOL
Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Antonio Di Pietro sono i tre magistrati principali del Pool Mani Pulite. Agiscono insieme, guidati dalla sapiente mano del Procuratore Gerardo D’Ambrosio.
Gherardo Colombo aderisce a magistratura democratica, corrente di sinistra. Nel 1980 indaga sul rapimento, o meglio “autosequestro”, di Michele Sindona e sull’assassinio di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore delle banche di Sindona. Nel corso delle indagini scopre le liste della loggia massonica segreta P2, la cui pubblicazione nel Maggio 1981 provoca un terremoto politico. Molti documenti trovati in queste indagini avrebbero potuto svelare il sistema di corruzione con diversi anni di anticipo, ma l’inchiesta fu trasferita a Roma. Anche i fondi neri dell’IRI erano la scintilla ideale per l’incendio tangentopoli: ma l’inchiesta fu nuovamente trasferita d’imperio. Nel ‘92 non vuole partecipare ad altre inchieste totalizzanti, ma, dietro insistenze del procuratore D’Ambrosio, accetta ed entra nel pool.
Piercamillo Davigo, classe 1950, ha alle spalle l’inchiesta Carceri d’oro del costruttore De Mico. Aderisce a Magistratura Indipendente, corrente conservatrice. Si occupa di corruzione anche per il “piano casa” del comune di Milano, che vede per la prima volta indagato, ma poi prosciolto, Salvatore Ligresti. Nel Pool Mani pulite si occupa inizialmente delle indagini su Malpensa 2000. Nei primi mesi stila 130 richieste di autorizzazione a procedere per parlamentari. Grazie alla sua conoscenza dei codici e la sua abilità nel districarsi tra le leggi, si guadagna il soprannome di “Piercavillus”.
Antonio Di Pietro è un solista, resta fuori da correnti organizzate e non partecipa alla vita associativa della magistratura. Condivide con Davigo, oltre che l’anno di nascita, anche l’inchiesta “Carceri d’oro”. Il consiglio giudiziario di Milano riconosce a Di Pietro “eccezionali capacità di lavoro ed intuito fulmineo dei percorsi più rapidi per provocare l’emersione della verità storica”.
IL CASO CHIESA
Lunedì 17 Febbraio 1992, ore 17,30. Un imprenditore di 32 anni, Luca Magni, si presenta nell’ufficio di Mario Chiesa, esponente del PSI milanese e presidente del Pio Albergo Trivulzio. Magni è titolare di una piccola impresa di pulizie, e deve consegnare al presidente dell’istituto una tangente di 7 milioni di lire per ottenere un appalto da 140 milioni.
Qualche giorno prima Luca Magni aveva spontaneamente denunciato il giro di tangenti. Ascoltata la sua deposizione, il capitano Zuliani contatta Antonio Di Pietro che a sua volta organizza un blitz per cogliere in flagranza di reato Mario Chiesa.
Alle 18 in punto Mario Chiesa riceve nel suo ufficio Luca Magni che nel taschino della giacca ha una penna microspia e nasconde una telecamera nella valigetta. Dopo aver intascato la mazzetta, il presidente dell’ospizio viene subito intercettato dai carabinieri in borghese. Chiesa capisce di essere caduto in trappola e, in un ultimo disperato tentativo di salvarsi, cerca di liberarsi della tangente gettandola nella tazza del gabinetto. Chiesa non sapeva che la sera prima tutte le banconote erano state segnate da Antonio Di Pietro.
Bettino Craxi, leader del PSI, nega con forza l’esistenza della corruzione a livello nazionale e definisce Mario Chiesa un “mariuolo isolato”, una scheggia impazzita dell’altrimenti integro Partito Socialista.
Nel frattempo dal carcere di San Vittore, Mario Chiesa, messo alle strette da Di Pietro, rivela che il sistema delle tangenti è molto più esteso di quello che si possa immaginare. Secondo le sue dichiarazioni, in tutta Italia, la tangente era diventata una sorta di “tassa”.
E’ questo il primo atto dell’inchiesta comunemente nota come Mani Pulite che porterà alla fine della Prima Repubblica e all’arresto di quasi tutti i suoi principali esponenti.
COSA SUCCESSE DOPO
Nelle elezioni del 1992 la Democrazia Cristiana perse molti voti, ma riuscì a mantenere una leggera maggioranza; l’opposizione, al contrario, guadagnò consensi. Non c’era tuttavia unità fra gli oppositori. Il Parlamento che ne risultò era troppo debole e le elezioni anticipate arrivarono nel 1994.
Nell’Aprile 1992, molti industriali e politici furono arrestati con l’accusa di corruzione. Si venne a creare un clima da caccia alle streghe, teso al punto che un anonimo esponente politico confessò immediatamente tutti i propri crimini a due carabinieri che erano arrivati a casa sua, per poi scoprire che erano lì semplicemente per notificargli una multa.
Il 2 Settembre 1992, Sergio Moroni, accusato di corruzione, si uccise e spedì una toccante lettera al Presidente della Camera Giorgio Napolitano. Moroni si dichiarò colpevole, rivelando che i crimini non erano stati commessi per il proprio tornaconto, ma a beneficio del partito e accusando il sistema di finanziamento di tutti i partiti. Bettino Craxi, molto legato a Moroni, si scagliò contro stampa e magistratura denunciando la creazione di un “clima infame”.
Nel 1993, a metà Marzo, fu reso pubblico uno scandalo riguardante l’ENI. Il 20 Luglio dello stesso anno, l’ex-presidente dell’ENI, Gabriele Cagliari, si uccise. Nel frattempo iniziò il processo a Sergio Cusani che era accusato di reati collegati ad una joint venture tra ENI e Montedison, chiamata Enimont. Il processo fu diffuso sulla televisione nazionale, e fu una specie di passerella di personaggi politici. Per quanto Cusani non fosse una figura di primo piano, il fatto che i reati di cui era accusato fossero collegati all’affare Enimont coinvolse come testimoni molti politici di primo piano; le udienze del processo furono trasmesse dalla RAI e seguite con vivo interesse da un pubblico molto numeroso.
Bettino Craxi ammise che il suo partito aveva ricevuto milioni di lire di fondi illegali. La sua difesa, recitata in un celebre discorso in un Parlamento che l’opinione pubblica riteneva ormai delegittimato, fu “lo facevano tutti”.
IL DIPIETRISMO
A Di Pietro era permesso tutto, si avviava a divenire eroe nazionale: partecipò alla festa della Polizia e fu applaudito per due minuti. Gli avevano riverniciato la stanza, aveva quattro scrivanie, tre computer e due poltroncine. Gli giungevano migliaia di lettere da tutt’Italia. Il Corriere della Sera, tra il 7 e il 15 Maggio, lo celebrò questi titoli: «Il pm contadino, quasi un eroe», «La domenica tranquilla dell’eroe», «Il fascino discreto dell’uomo onesto».
Il dipietrismo nacque ufficialmente in Maggio. La prima scritta fu individuata nello stadio di San Siro: «Di Pietro, sei meglio di Pelè». Poi un «Grazie Di Pietro» e poi lo striscione «Di Pietro sindaco». E così via. «La rabbia degli onesti corre sui muri» titolò l’Unità del 10 Maggio. A metà del mese ecco la prima fiaccolata pro Di Pietro con cabaret finale a cura di Lella Costa e di una giovanissima Sabina Guzzanti. Il 30 Maggio, su Italia Uno, Gianfranco Funari nel suo programma «Mezzogiorno italiano» fece partire uno spot con l’immagine di Di Pietro che camminava e una voce di sottofondo che lo incitava: «Vai avanti… vai avanti…». La c.d. “stagione dei suicidi”, la discesa in campo di Berlusconi e le successive numerose indagini a carico di Di Pietro minarono però la fiducia pubblica nei confronti del magistrato.
IL CONFLITTO BERLUSCONI – DI PIETRO
Nel 1994, Silvio Berlusconi entrò impetuosamente in politica e vinse le elezioni. Il 13 Luglio 1994, è il giorno di emanazione del c.d. “decreto Biondi”, che favoriva gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione. A seguito di critiche, forse perché il governo non poteva permettersi di essere visto come avversario del popolarissimo pool, il decreto fu ritirato. Cominciò così la “battaglia tra Berlusconi e Di Pietro”. Da una parte le indagini giudiziarie sulle aziende di Berlusconi, dall’altra il governo che mandava ispettori negli uffici dei giudici milanesi, alla disperata ricerca di irregolarità formali. Nessun vincitore: il 6 Dicembre 1994 Di Pietro lasciò la magistratura, nulla dicendo riguardo alle motivazioni, e due settimane dopo, il 22 Dicembre, il governo si dimise, alla vigilia di un voto di fiducia che avrebbe potuto vedere il parlamento votare contro il primo governo Berlusconi.
Nel 1995 furono avviate molte indagini contro Di Pietro, il quale fu assolto da tutte le accuse. Si scoprì poi che il principale accusatore di Di Pietro, Fabio Salamone, era il fratello di un uomo contro il quale lo stesso Di Pietro aveva sostenuto l’accusa, e che era stato condannato a 18 mesi di carcere per vari reati di corruzione.
Dopo essere stato prosciolto, Di Pietro iniziò la sua carriera politica.
LE CONSEGUENZA DI MANI PULITE
Al di là di valutazioni squisitamente politiche, gli effetti che Mani Pulite determina sono dirompenti. Si assiste ad una situazione in cui i personaggi e i partiti che avevano segnato la prima Repubblica e che governavano da 40 anni vengono delegittimati e si crea un apparente vuoto politico dentro il quale si affacciano e si affollano figure nuove o seminuove che hanno segnato e continuano a segnare la storia politica italiana.
Se si prova per la prima volta a ricostruire tutti gli esiti processuali degli indagati di Mani pulite, si riesce a dare nome, cognome, stato del processo ed ultimo esito al destino giudiziario di 2565 persone indagate in questi anni dai pm del pool (Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco e, per la parte loro affidata da un certo momento in poi, Boccassini, Ielo e Ramondini): 1408 di esse hanno patteggiato o sono stati condannati. Mani Pulite è dunque un’inchiesta che ha segnato come pochi altri la storia della Repubblica Italiana.
LA SOVRANITA’ ITALIANA E’ STATA COLPITA A MORTE DA MANI PULITE
01.08.2015 G. P.  Codice: di-pietro309281
di-pietro309281- Chi ci legge da tempo conosce la nostra posizione sulla famigerata operazione giudiziaria, impropriamente chiamata “Mani pulite”, che agli inizi degli anni ’90 determinò un terremoto sistemico, cambiando letteralmente volto all’Italia. Tangentopoli fu il pretesto per concretizzare un golpe di Palazzo e mandare in frantumi un’intera classe dirigente che, per quanto non “innocente” ed estremamente spregiudicata nel maneggiare il denaro pubblico, aveva, perlomeno, un’idea precisa degli interessi nazionali e della sovranità statale, cioè dei capisaldi non svendibili ed indispensabili all’autonomia decisionale di un popolo. La vecchia dirigenza DC-PSI, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia, non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitco dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. Tutto ciò verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni. Chi volesse approfondire sull’argomento può trovare i nostri articoli e video in rete (qui; qui; qui; qui; solo per citarne alcuni). Oggi vi proponiamo una serie di brani tratta da un libro di Tiziana Maiolo del 2011, Tangentopoli, in cui si evidenziano alcune stranezze non insignificanti sull’azione del Pool di Milano, il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte. In secondo luogo, pure la Maiolo, riprende la tesi del complotto della Cia nell’affaire Tangentopoli, anche se non arriva a comprendere come gli americani potessero fidarsi dei comunisti, cresciuti sotto l’ala di Mosca, per raggiungere i loro scopi. Le sfuggono importanti spostamenti di campo che il PCI iniziò ad operare sin dalla fine degli anni ’60 e che diventarono sempre più evidenti con il compromesso storico, le dichiarazioni berlingueriane favorevoli alla Nato ed i viaggi d’oltreoceano di Giorgio Napolitano. L’onda lunga del tradimento si completerà, in seguito alla caduta dell’URSS, con la svolta occhettiana della bolognina che porterà la ditta a cambiare apertamente nome e ragione sociale. E’ vero che la gioiosa macchina da guerra del PDS s’ingripperà sul più bello, mentre dava l’assalto al potere, ma occorre sapere che anche il complotto meglio pianificato può incontrare un inghippo che ne impedisce la concretazione perfetta, quella più aderente alla sua progettazione. Così è, invece, accaduto e la ciambella non è riuscita col buco, a causa di un ostacolo che nella realtà dei fatti ha preso le sembianze di un Cavaliere venuto da Arcore, catalizzatore del bacino elettorale dei partiti distrutti dai giudici, il quale dal nulla mise su un movimento soffiando la vittoria, ormai data per scontata, ai piccìsti tramutatisi come per magia in democratici filo-occidentali. Questo ha modificato non di poco i disegni americani, tuttavia, ci sembra che i risultati positivi siano lo stesso arrivati (per loro, s’intende). Basta guardare alla condizione servile in cui è ridotta l’Italia per rendersene conto. Buona Lettura.
Le mani pulite dei comunisti
Il pool di Milano intanto procedeva come un carro armato. E tutti aspettavano che finalmente andasse a colpire anche il Pci-Pds, che andasse a fondo, che facesse una pulizia totale. Non era previsto che quella del pool fosse guerra chirurgica, selettiva. Grande stupore destarono quindi le parole del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio che in un’intervista rilasciata al quotidiano «l’Unità» il 26 maggio 1993 annunciò che a grandi linee l’inchiesta su tangentopoli era finita. Lo annuncia nel momento in cui le indagini hanno colpito in tutta Italia esponenti locali e nazionali del Psi e della Dc. D’Ambrosio spiega: «Finita, nel senso che ciò che doveva emergere nel filone politico-affaristico è venuto fuori». Il che significa esplicitamente, improvvisamente che il nuovo codice, entrato in vigore da soli quattro anni, imponeva al pm di raccogliere anche prove in favore dell’imputato. Fu un fatto eccezionale, infatti non si ricordano molti altri casi in cui il rappresentante dell’accusa sia andato in soccorso della difesa.
D’Ambrosio lo fece, fece quel che l’avvocato di Greganti non aveva fatto. E scoprì che, nella stessa giornata in cui Greganti aveva prelevato denaro da un conto svizzero che si chiamava Gabbietta, aveva acquistato una casa a Roma. «Ecco la prova – disse – che il funzionario rubava per sé e non per il partito». Benché il gip Italo Ghitti non fosse convinto, e men che meno Tiziana Parenti, la cosa finì così, cioè si sposò la tesi che Greganti si era fatto tre mesi di galera per non confessare di aver comprato una casa in nero. Una cosa da ridere, ma nessuno rise. Il partito di Occhetto era salvo.
Questa storia della casa di Greganti non verrà mai chiarita, anche perché, ogni volta che le indagini andranno a lambire i vertici dell’ex Partito comunista, la Procura di Milano andrà in tilt. Ma un paio di anni dopo, quando il quadro politico è radicalmente cambiato e non esistono più la Dc né il Psi, ma esiste ancora l’ex partito di Occhetto, il ministro di Giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, avvierà un’ispezione nei confronti del pool di Milano, e la questione di quella casa salterà di nuovo fuori. Mancuso illustra i capi d’accusa nei confronti del pool, e parla di un «rifiuto da parte di un qualificato esponente della Procura, a ricevere un rapporto che un ufficiale della guardia di finanza avrebbe dovuto depositare». Che cosa è successo? È successo semplicemente che questo ufficiale, che si era occupato delle indagini su Greganti, ha notato un’incongruenza nella ricostruzione di quell’acquisto della casa romana. La sequenza avrebbe dovuto essere questa; nella stessa giornata Greganti va in Svizzera, preleva i soldi dal conto Gabbietta, poi va a Roma, si incontra con il venditore della casa e stipula il rogito.
Difficile che le cose siano andate così, scrive l’ufficiale nella sua relazione, perché l’atto di acquisto della casa è stato siglato a Roma, in un’agenzia del Monte dei Paschi di Siena alle 9.30 del mattino. A che ora dunque Greganti era andato nella banca di Lugano e con che supersonico mezzo di trasporto si era poi trovato alle 9.30 a Roma? Chiaro che i soldi per l’acquisto dell’appartamento non erano gli stessi del conto svizzero. E dove sono finiti questi ultimi? Nelle casse del Pci-Pds. La relazione, chiarissima, era stata però accolta con indifferenza dai magistrati di Milano, che non vollero indagare più.
Poco dopo alla giovane magistrata che aveva osato sfidare i vertici della Quercia l’inchiesta fu tolta. Tiziana Parenti non era «allineata» con la Procura, si disse. E si concluse il suo rapporto con la sinistra, tanto che nel 1994 si unirà ai tanti di noi che andranno in Parlamento con la lista di Forza Italia.
Ci sarà
Ci sarà un altro magistrato la cui inchiesta sul Pci-Pds si infrangerà su un muro di omertà complici e di «aiutini», il procuratore di Venezia Carlo Nordio, cui a un certo punto furono trasferiti anche atti provenienti da Milano. L’interrogatorio di Luigi Carnevale, che chiamava in causa esplicitamente Stefanini, Occhetto e D’Alema non arrivò mai. Si disse che era stata una «dimenticanza». E così l’inchiesta di Venezia, come tante altre che si snodarono in tutta Italia, si risolse con le condanne dei pesci piccoli. E che dire di quel miliardo di lire che Raul Gardini, patron di Enimont, consegnò a Botteghe Oscure, su cui esistono diverse testimonianze e per il quale Sergio Cusani fu condannato a sei anni di carcere? Sparito nelle stanze buie della grande federazione del Pci-Pds. Nessun magistrato, né Di Pietro né in seguito i diversi tribunali individuarono in quali mani il denaro fosse finito. Per D’Alema e Occhetto non è mai valso il principio del «non poteva non sapere» o della «responsabilità oggettiva» con cui fu colpito Bettino Craxi. Eppure c’era stato il racconto (indiretto) di Sergio Cusani che aveva riferito di aver consegnato un miliardo nelle mani di Achille Occhetto. Il tribunale che condannò Cusani scrisse:
Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico.
Non si ricordano urla e strepiti del pubblico ministero Antonio Di Pietro (anche se chiederà timidamente di interrogare D’Alema), che dopo quel processo gettò la toga. Occhetto e D’Alema non furono neppure sentiti e il miliardo passò alla storia come finanziamento illegale «a un partito», che sarà stato popolato di fantasmi e non di persone fornite di lingua per chiedere e di mani per ricevere. Raul Gardini non sarà un povero «concusso» dall’avidità vorace di politici citati con nome e cognome. Questa è la guerra chirurgica.
Toghe rosse in frantumi
Francesco Misiani (per noi amici Ciccio), pubblico ministero romano di sinistra aderente alla corrente più radicale di Magistratura democratica, ha spiegato in un libro molto sincero e appassionato3 quale fosse lo stato d’animo suo, e forse di alcuni suoi colleghi «compagni», quando scoprirono che il Pci-Pds, lungi dal rappresentare quella «diversità» su cui tanto si era appassionato Enrico Berlinguer, era invece assolutamente omologo (un terzo un terzo un terzo) ai partiti di governo e, proprio come aveva denunciato l’inascoltato Craxi, si era sempre finanziato in modo illecito o illegale. Anzi, avendo anche ricevuto finanziamenti dall’Unione sovietica (come racconterà con franchezza in un altro libro Gianni Cervetti) aveva molte maggiori disponibilità. Lo stato d’animo di Misiani e altri suoi compagni era di lacerazione. Tanto che anche a loro apparve nuda e cruda la verità, e cioè che i magistrati di sinistra non avevano voluto processare né D’Alema né Occhetto. Avevano avuto la realtà dei fatti davanti agli occhi e avevano preferito chiuderli.
Seguiamo il racconto di Misiani alle prese con un filone, forse minore, di «tangenti rosse»: «Ero convinto che quei soldi erano arrivati a Botteghe Oscure, ma rimasi ammirato dalla solidità delle argomentazioni difensive, anche nella loro verisimiglianza». Aveva fatto arrestare una persona che veniva definita «il collettore rosso» di tangenti. Così ne parla:
Ebbene quest’uomo, di cui ricordo lo sguardo impenetrabile e la modestia nel vestire, ebbe il coraggio di sostenere che i soldi che aveva raccolto dalle imprese se li era intascati. Che le sue erano state semplici millanterie per convincere gli altri imprenditori a versare tangenti che in realtà non sarebbero poi mai arrivate a Botteghe Oscure.
Che cosa conclude il magistrato? «Naturalmente non credetti a una sola delle sue parole. Ma mi accontentai e chiusi lì l’indagine». È una scelta processuale, ma è anche una scelta politica. E Misiani non la nasconde:
Non sono un ipocrita e so perfettamente che se avessi insistito, forse prima o poi, sarei riuscito a dimostrare in un’aula di tribunale che il Pci al pari degli altri partiti non era estraneo al circuito del finanziamento illecito da parte delle imprese. Ma non lo feci.
Qui si pongono due questioni. La prima dimostra come le inchieste di tangentopoli siano state gestite in gran parte da magistrati di sinistra i quali, un po’ per ideologia un po’ per convenienza, hanno operato la guerra chirurgica e selettiva. E se si pensa che, insieme alle sanzioni per i singoli, si è prodotta quella grande punizione nei confronti di alcuni partiti fino a farli sparire dalla scena politica mentre altri, ugualmente prosperati nell’illegalità, si sono salvati, forse è poco parlare di ingiustizia. Forse si capisce che all’inizio degli anni novanta ci si è avvicinati pericolosamente a una presa del Palazzo d’inverno da parte di un settore della magistratura. E la cosa grave è che qualche giovanotto che aveva vinto un concorso determinò mutamenti politici che non è esagerato definire storici. La seconda questione la pone esplicitamente lo stesso Misiani nelle pagine successive all’episodio che abbiamo raccontato, nel suo libro. Ed è il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Il magistrato sa di averlo violato, ciononostante con franchezza afferma che lo rifarebbe:
Non ho difficoltà a dire quello che anche i muri sanno. Nelle scelte di ogni Pubblico ministero esiste un elemento di forte discrezionalità. I magistrati sono uomini in carne e ossa, con le loro idee politiche, la loro formazione culturale. Far finta del contrario significherebbe voler aggirare il problema. L’importante è esserne coscienti.
Non penso proprio che sia sufficiente «essere coscienti». La verità è che questi magistrati agiscono ogni giorno forzando il principio del «libero convincimento». E questo non significa forse che in certi comportamenti c’è arbitrio? Con la conseguenza di creare puniti e impuniti, singoli arrestati e scampati, ma soprattutto partiti distrutti, partiti che non esistono più e partiti (in realtà solo uno, il Pci-Pds-Ds-Pd) che, pur essendosi finanziati in modo irregolare e illegale come gli altri, hanno cambiato nome (ma non gli uomini) e soprattutto esistono ancora.
L’uomo della Cia
Nel 1994, quando ero ministro del primo governo Berlusconi, fui avvicinato da alcuni professori miei amici, che erano legati alla Cia, i quali mi misero in guardia da Di Pietro, mi suggerirono di diffidare della persona. Mi dissero con certezza che Di Pietro nella costruzione di tangentopoli era stato aiutato dai servizi segreti americani.
Chi mi parla non è un esponente della Prima Repubblica, ma uno dei fondatori della Seconda, al fianco di Silvio Berlusconi: Giuliano Urbani. Lui a questa versione dei fatti crede da quando quegli amici gli spiegarono che il desiderio di vendetta degli Stati Uniti nei confronti di Craxi, Spadolini e Andreotti per i fatti di Sigonella ebbe diversi strumenti operativi, tra cui appunto l’uso di Tonino Di Pietro. Il quale in effetti arrivò, distrusse e se ne andò. Su mandato dei servizi segreti americani.
Il racconto di Urbani, proprio perché proviene da un liberale che arrivò nei palazzi del potere «dopo» e che quindi non aveva nessun motivo di «revanchismo» nei confronti del Pm di Mani pulite, quasi quasi mi convince: «Quegli amici mi hanno avvicinato per avvertirmi della doppiezza dell’uomo, che era stato protagonista di una pagina oscura. E mi hanno proprio cercato loro, appositamente». Vengono con facilità alla memoria quelle trattative, poi saltate, per far entrare Di Pietro nel governo Berlusconi. Viene alla memoria tutto. E i dubbi aumentano. Sappiamo come è cominciata, ma non sappiamo perché. Perché una colossale retata giudiziaria a strascico abbia rivoluzionato la fisionomia politica del Paese. Perché la Democrazia cristiana, il partito che dal 1948 al 1993 aveva governato e raccolto il consenso della maggioranza degli italiani, non esista più. Vorremmo apere perché Bettino Craxi, lo statista del riformismo laico che aveva osato sfidare i due colossi della politica italiana, il partito unico dei cattolici e quello comunista sostenuto dall’Unione sovietica, sia morto esule e il suo partito, il Psi di Turati e Anna Kulisciof, non esista più. Vorremmo sapere perché tutta la cultura laica e riformista che consentiva di andare all’urna e di votare i liberali, i repubblicani o i socialdemocratici sia stata spazzata via. E vorremmo sapere infine perché, di tutte le possibilità di scelta dei partiti tradizionali che dal dopoguerra fino all’inizio degli anni novanta hanno avuto gli elettori nell’urna, è rimasta solo l’opzione comunista, in qualunque modo si chiami il partito che la rappresenta, quello che fu di Longo, Togliatti e Berlinguer, il Pci, poi Pds, Ds, e oggi Pd.
Certo, nel frattempo è arrivato Silvio Berlusconi a ereditare l’intero pentapartito e a portare quel valore aggiunto che prenderà il nome di Forza Italia, è cresciuta la Lega ed è stato sdoganato l’inesistente Movimento sociale (poi Alleanza nazionale), l’unico piccolo partito che, insieme al Partito radicale, un po’ per merito un po’ per emarginazione, non aveva partecipato al finanziamento illecito. Tutto questo è storia che si riverbera sul presente. Ma rimane quella domanda: perché? Perché è accaduto? È stato casuale o l’ha voluto qualcuno? Propenderei per la prima ipotesi. Per me l’assalto al Palazzo aveva avuto un inizio casuale. Però…
Il complotto internazionale
Non tutti la pensano così. C’è chi ha sposato la teoria del «complotto internazionale». Sostenuta da molti esponenti governativi prestigiosi della Prima Repubblica (capofila di questo pensiero fu Bettino Craxi), questa ipotesi parte dal presupposto, in parte fondato, che la magistratura fno al 1992 rispetto al finanziamento illecito e illegale dei partiti aveva più o meno sonnecchiato. Se c’era stata qualche indagine, questa aveva riguardato (come è giusto e come prescrive il codice) singoli casi e singole persone. Situazioni circoscritte, che non avevano influenzato le cadenze della politica. Come mai, si domandano i sostenitori del «complotto internazionale» e anche quelli del complotto nostrano, a un certo punto c’è stata l’improvvisa accelerazione che ha messo in crisi l’intero sistema dei partiti? La prima cosa da capire è proprio questa: per quale motivo a un certo punto l’inchiesta di Milano partita con l’arresto di Mario Chiesa sia diventata il processo al «sistema». Qualcuno, si dice, aveva interesse ad annientare l’intera classe politica al governo e sostituirla con un’altra. Chi? Perché?
L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha fatto parte di coloro che hanno creduto al complotto internazionale. In una delle sue ultime interviste, in occasione del suo ottantesimo compleanno1, Cossiga attribuisce alla Cia e agli Stati Uniti un ruolo importante sull’inizio di tangentopoli, così come sulle «disgrazie» di Craxi e anche di Andreotti. Proprio loro due, dice, «sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei». Ricorda anche che, dal 1992 in avanti, gli Stati Uniti sono stati governati da amministrazioni del Partito democratico, «le più interventiste e implacabili». Una ritorsione, dunque, giocata sullo scacchiere mediorientale, secondo me un po’ contraddittoria. Qualora, infatti, distrutto il pentapartito e non prevedendo l’inatteso arrivo di Berlusconi, avesse trionfato nel 1994 la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, gli Stati Uniti avrebbero di nuovo avuto interlocutori marcatamente filopalestinesi, come sempre sono stati gli esponenti della sinistra italiana. A maggior ragione essendo il Pci-Pds-Ds costretto a governare con la sinistra più radicale, per poter avere una maggioranza, come hanno dimostrato le tante difficoltà dei due governi Prodi. A meno che gli Stati Uniti non avessero messo gli occhi proprio sull’area cattolica dossettiana rappresentata dall’ex Presidente dell’Iri. Ma anche in questo caso avrebbero dimostrato di non conoscere bene gli affari interni al nostro Paese, le nostre leggi elettorali e la possibilità di costruire maggioranze che avessero la speranza di poter governare senza alleanze allargate.

Un altro personaggio significativo della Prima Repubblica, l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, ha elaborato in modo più accurato la sua teoria su Cia e Stati Uniti, tanto da parere ben informato sulla «manina americana». Racconta2 che il «complotto» iniziò proprio nel 1992, la data fatidica di Mani pulite. In quei giorni il capo della Cia, Woolsey, tenne una conferenza in California e spiegò che l’amministrazione Clinton aveva disposto un vero spionaggio industriale per difendere le imprese americane nel mondo. In quel periodo, dice ancora Cirino Pomicino, a Milano sbarcò l’agenzia privata di investigazioni Kroll. E fu così che, attraverso le aziende, gli americani raccolsero corposi dossier sul finanziamento illecito e illegale ai partiti, ma anche su singoli casi di corruzione. Il capo della Cia fece sapere al suo governo che c’era la possibilità di far scoppiare scandali in Europa, se fosse servito. Resta da capire meglio quale fosse l’interesse degli americani in quel momento, oltre al fatto che fossero indispettiti fin dai tempi di Reagan per la guerra di Sigonella e la resistenza del governo italiano (non a caso guidato dal presidente del Consiglio Craxi e con ministro degli Esteri Andreotti) oltre che per la questione di Israele e dei palestinesi. Nell’analisi di Cirino Pomicino non esiste solo l’Italia, ma anche ad esempio la Gran Bretagna, dove «la Tatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro», oltre che una certa attenzione ai problemi avuti da Chirac in Francia e Kohl in Germania. Resta il fatto che, secondo l’ipotesi del «complotto internazionale», in quel momento sarebbe stata scelta l’Italia, come luogo dove far scoppiare lo scandalo. L’ipotesi è interessante, e anche le motivazioni che avrebbero determinato i fatti. Il punto debole è la strategia che gli americani avrebbero avuto sul «dopo». Chi assaltò il Palazzo d’inverno, chi prese la Bastiglia aveva un progetto per il giorno dopo la rivoluzione. I servizi segreti americani avevano dunque un accordo con Occhetto? Oppure con quei «poteri forti» che cercavano la discontinuità e che non ameranno mai Berlusconi, trattato sempre come un Maradona, g…

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